L’elenco è lungo: Sindrome di Ehlers-Danlos, Sindrome di Arnold-Chiari, Midollo ancorato, Instabilità cranio-cervicale, Malformazione della cerniera cranio-cervicale, POTS, RSD, Mast Cell Activation, Insufficienza surrenalica, Disordine mitocondriale, Cistite interstiziale, Ipotensione endocranica, Vescica neurologica, Diabete insipido, Gastroparesi.
Sono nata in Sicilia, in una famiglia come tante. Ho una sorella di nome Laura, con cui ho condiviso gran parte della mia infanzia. Fino ad un certo punto, ho vissuto un'infanzia normale, serena, come quella di tanti bambini.
Ho iniziato ad avere i primi problemi di salute verso i sei anni: difficoltà ad urinare, mal di testa, problemi di vista. I sintomi più importanti erano quelli urologici: microematuria, ossaluria, dolore in fossa iliaca. Io e i miei genitori abbiamo iniziato a girare per tutta l’Italia, cercando di capire di quale malattia soffrissi ed una cura. Molti medici, però, sembravano prestare poca attenzione al mio caso, non si soffermavano sulla mia condizione clinica nel suo complesso. I miei disturbi delle vie urinarie, ad esempio, furono sottovalutati. Oggi mi trovo ad avere un catetere sovrapubico che, forse, si sarebbe potuto evitare.
Più crescevo, più la mia situazione clinica andava peggiorando. I viaggi dai vari luminari continuavano, in Italia e fuori dall'Italia, ma tornavamo a casa sempre senza una diagnosi chiara. Il mio quadro sintomatologico mandava in tilt il processo diagnostico di molti medici, che spesso arrivavano a lanciare ipotesi senza grande convinzione. A volte, addirittura, alcuni paventavano che quel che mi succedeva fosse frutto della mia immaginazione. A 12 anni, a causa di un globo vescicale, venni operata d’urgenza. Rimasi ricoverata 4 mesi con un catetere vescicale, senza cateterismo intermittente. Uscii da quell’ospedale senza diagnosi, se non che avevo grossi, non ben precisati, problemi psicologici. Il primario di un centro importante ipotizzò anche che io avessi una malattia neuro-psichiatrica probabilmente inguaribile, molto difficile da diagnosticare, per cui avrei dovuto rimanere ricoverata per un tempo indefinito.
Per fortuna i miei genitori non si arresero. Grazie alla loro caparbietà, dopo anni dall’esordio dei primi sintomi, trovammo finalmente chi iniziò a parlare della sindrome di Arnold-Chiari. Fu un primo passo, ma purtroppo molti dei miei sintomi sembravano non collimare con questa diagnosi. Ero ormai una ragazzina quando venni operata in Spagna per trattare la sindrome del midollo ancorato che avevano individuato. Secondo i medici, quell’intervento sarebbe stato risolutivo. Io, dopo i primi mesi di benessere, tornai a peggiorare. Continuavo ad avere problemi alla vescica, mal di testa, momenti di assenza, diabete insipido. Mi ritrovai con un sondino nasogastrico per poter mangiare e seduta su una sedia a rotelle, perché non riuscivo a camminare. Fu un periodo davvero duro per me.
Poi arrivò la mail del Dr. Paolo Bolognese, neurochirurgo del Chiari EDS Center di New York. Aveva ricevuto le risonanze magnetiche inviate dai miei genitori e ci proponeva una video-call per parlare del mio caso. Quella sera, durante quel consulto a distanza, per la prima volta si ipotizzò che i miei sintomi fossero riconducibili ad un’instabilità cranio-cervicale (CCI) legata alla sindrome di Ehlers-Danlos. L’ipotesi diagnostica venne confermata dalla positività al test di trazione cervicale assiale. Ci propose un intervento chirurgico di fusione occipito-cervicale mirato alla stabilizzazione biomeccanica della giunzione cranio-cervicale. Bisognava andare a New-York, sostenere costi altissimi, ero frastornata e spaventata, ma finalmente avevo la mia diagnosi. Erano passati circa 7 anni dall’inizio del mio calvario.
Chiara Cumella insieme a sua mamma
Io ero una bambina. Ricordo che eravamo sempre in viaggio. Io stavo male fisicamente e stavo male nel sentirmi giudicata una bambina viziata e capricciosa. Fu un periodo davvero duro per me, per tutta la mia famiglia. Ho sempre avuto fiducia nei miei genitori. Loro non si sono mai persi d’animo, non hanno mai desistito, anche quando qualcuno disse loro che ero da internare. Tutto cambiò quando arrivò la conferma della mia diagnosi, dopo il consulto con il Dr. Bolognese. Il giorno dopo la diagnosi non cambiò la mia malattia, non cambiarono i miei sintomi, ma finimmo di provare quella sensazione di smarrimento, l’incubo di stare in un tunnel buio, dove cammini e cammini, ma non trovi mai la luce. Non sapere quale malattia ti affligge è devastante dal punto di vista psicologico, oltre che pratico. Più tardi arriva la diagnosi, più tardi inizia a curarti.
Il mio primo viaggio negli Stati Uniti è un’esperienza difficile da dimenticare. Io non stavo bene per niente, la mia famiglia doveva affrontare costi altissimi, spese di viaggio, sanitarie, l’albergo, e nessuno sapeva cosa sarebbe successo dopo quell’operazione. Riuscimmo a raccogliere i soldi necessari per l’intervento chirurgico grazie alla generosità della mia città, che organizzò una raccolta di fondi, e all’intervento della Regione Sicilia. Io ero una ragazzina, stavo male, ero dall’altra parte del mondo con tanta speranza, ma anche con tanta paura.
Tutto andò per il meglio. Subito dopo l’intervento chirurgico le mie condizioni cliniche migliorarono rapidamente. Già in ospedale avevo ripreso a mangiare senza bisogno del sondino naso-gastrico. Tornai a casa felice, con la sensazione di essermi ripresa in mano la mia vita. Potevo camminare, mangiare, non avevo dolori che mi impedivano di avere una vita normale, stavo finalmente “bene”. Ripresi ad andare a scuola. Questa situazione durò per circa tre anni.
I miei problemi legati alla vescica neurologica non erano risolti. Mi sottoposi a diverse visite ed esami, ed infine mi fu proposto l’impianto chirurgico di un dispositivo per la neuromodulazione sacrale. I medici che mi operarono sapevano delle mie condizioni cliniche complessive, ciononostante ebbi un arresto cardiaco in sala operatoria. L’arresto cardiaco, probabilmente, fu causato da un’errata procedura di intubazione, che nel mio caso aveva indicazione di essere eseguita con la tecnica naso-tracheale. Mi ripresi dall’arresto cardiaco senza conseguenze immediate, ma, dopo poco tempo, comparvero una serie di sintomi preoccupanti: febbre alta, disfagia, mal di testa. Il neurochirurgo mi disse che la fusione midollare a livello cervicale era stata compromessa, probabilmente, durante la manovra di intubazione e le procedure di rianimazione cardiopolmonare. Bisognava ripartire daccapo. Il problema è che, da allora, io non sono più rimasta stabile per periodi prolungati. Si ripete ciclicamente lo stesso schema: un nuovo viaggio negli Stati Uniti, un nuovo intervento chirurgico, un periodo di benessere e poi la ricaduta. Ripetutamente, i sintomi riprendono a farsi sentire.
Ero alle scuole superiori, ma la mia vita non è stata quella di una qualunque ragazza che va alle scuole superiori. Sono riuscita a frequentare solo i primi due anni di scuola superiore. Poi ho iniziato a viaggiare in continuazione verso gli Stati Uniti, non ho più potuto frequentare le lezioni in modo continuativo. Quando mi trovavo in Italia, spesso seguivo un programma di istruzione domiciliare. I miei insegnanti venivano a casa e svolgevano delle lezioni private per me. I miei insegnanti mi sono stati tanto vicini in quel periodo, dal punto di vista umano è stata una bellissima esperienza.
Umanamente ho ricevuto tanto. Anche la raccolta di fondi organizzata dai miei concittadini è stata un’esperienza davvero intensa, che rimarrà sempre nel mio cuore. I cittadini di Caltanissetta hanno aperto il loro cuore e mi hanno aiutato. Anche oggi, quando mi incontrano per strada, si ricordano di quel momento. È stato un momento intenso per tutta la collettività.
La prima pagina di un quotidiano locale annuncia il ritorno di Chiara in Italia dopo il primo intervento negli Stati Uniti del 2013
Se sono qui a combattere, lo devo principalmente a mia mamma e mio papà. Non si sono mai fermati, nonostante i tanti momenti difficili e le numerose porte sbattute in faccia. Mamma è molto religiosa, trova tanta forza in Dio. Siamo tutti credenti in famiglia, ma io credo che la forza maggiore che abbiamo sia quella che ci diamo l’un l’altro. Mamma e papà sono con me, sempre, in ogni cosa che faccio.
Hanno anche costituito un'associazione, Le ali della speranza, per aiutare me e tutti quelli che, come me, vivono con la sindrome di Ehlers Danlos e tutte le patologie che possono essere ad essa correlate.
C’è poi mia sorella Laura. Io e mia sorella siamo molto unite. A causa dei miei continui viaggi negli Stati Uniti ci sono lunghi periodi durante i quali non ci vediamo. Ne soffro io, ne soffre lei, ma grazie alla tecnologia riusciamo a sentirci meno lontane. Lei ha un quadro sindromico simile al mio, ma, per fortuna, al momento non ha sintomi importanti e non ha la condizione invalidante che ho io.
La mia condizione è rara, probabilmente rara tra le condizioni rare. Fare diagnosi rapidamente in un caso come il mio non è semplice, ma attendere anni non è accettabile. Serve fare ricerca, serve fare formazione tra i medici, servono linee guida comuni, serve una rete di comunicazione efficace. Serve, prima di tutto, che le malattie rare raggiungano lo status di malattia degna di essere curata, al pari di qualunque altra malattia. Se avessi avuto una diagnosi in tempi più brevi, forse la mia vita oggi sarebbe diversa, migliore.
Sogno di fare il medico da quando avevo 5 anni. Anzi, precisamente, sogno di fare l’anestesista da quando avevo 5 anni. Mia mamma lo ricorda sempre a tutti che io, così piccola, dicevo che volevo fare l’anestesista. Non so dove abbia sentito questa parola la prima volta, non so perché mi abbia tanto affascinato. So però che, negli anni, mi ha accompagnato in modo costante. Il mio sogno si è sempre più rafforzato.
Dopo il diploma di scuola superiore, in estate, andai negli Stati Uniti per fare dei controlli medici. Ricordo che ogni notte mi collegavo ad una piattaforma web per esercitarmi in vista del test per accedere alla facoltà di Medicina. Studiai molto quell’estate per superare il test ed entrare nella scuola di Medicina.
Un pessimo ricordo. A ridosso della data del test di Medicina, iniziai a soffrire di diplopia. Chiesi allora di poter essere assistita da un tutor durante il test, in modo da avere aiuto nel caso in cui avessi avuto difficoltà nel leggere le domande. Purtroppo, alla fine dell’esame, il tutor mise il mio test nel contenitore sbagliato, quello dei moduli anagrafici. Il presidente della commissione esaminatrice disse che i contenitori non potevano essere aperti per sistemare subito l’errore, ma mi venne detto che il mio test sarebbe stato corretto comunque. Il test non venne mai corretto, la mia prova fu invalidata.
Allora, per non perdere un anno, mi iscrissi alla sede distaccata di Enna dell’Università "Dunarea de Jos", dove adesso frequento il quinto anno del corso di laurea in Medicina e Chirurgia.
Ho un buon ricordo dei miei primi due anni di università. Andava tutto per il meglio, io stavo bene e riuscivo a frequentare le lezioni tutti i giorni. Abbiamo iniziato il tirocinio pratico in ospedale fin dal primo anno, io non avevo problemi ad andare nei vari reparti. Mi piaceva indossare il camice, era un pezzetto del mio grande sogno che si realizzava.
Non era facile frequentare le lezioni, l’ospedale, studiare, dare gli esami, gestire la mia malattia. Niente è facile nella mia condizione. Ma con coraggio ho sempre cercato di affrontare ogni ostacolo. Se devo dirla tutta, quello che più mi ha messo in difficoltà è stato l’atteggiamento di alcuni professori. Mi hanno fatto capire, a volte senza troppi giri di parole, che io avrei dovuto lasciare l’università, che io avrei dovuto abbandonare l’idea di fare il medico, perché il mio unico posto in ospedale era quello in veste di paziente. Sono stati pochi, per fortuna, ma hanno lasciato il segno.
Chiara Cumella in ospedale durante il suo tirocinio pratico
Nessun problema con i miei compagni di corso. Mi sono sempre stati accanto. Anche oggi mi sono molto vicini, non ho mai avuto problemi di nessun genere con loro.
È successo che è arrivata la pandemia di COVID-19, il lockdown, le lezioni a distanza. Un anno difficile per tutti, ma durante il quale sono comunque riuscita a seguire le lezioni e a prepararmi per i miei esami. Non stavo bene, ma ho comunque fatto del mio meglio per non rimanere indietro.
Lo scorso settembre (settembre 2022, ndr), all’inizio del mio quinto anno, ho chiesto di poter seguire le lezioni a distanza. La mie condizioni di salute erano peggiorate di nuovo. Purtroppo, l’università mi ha negato questa possibilità. La motivazione? “Se lo facciamo fare a te, poi dovremo farlo fare a tutti”. Motivazione poco sensata a mio parere, perché io sono su una sedia a rotelle e mi nutro attraverso un sondino naso-gastrico. Non è questa la condizione di “tutti” gli studenti.
L’ultimo intervento chirurgico di fusione cranio-cervicale del novembre 2021 mi ha fatto stare bene qualche mese, ma poi i sintomi sono tornati. Di nuovo non riesco a camminare, non riesco a mangiare, ho dolore. Dovrò sottopormi ad un nuovo intervento chirurgico, nella speranza che possa migliorare le mie condizioni per un periodo di tempo maggiore. All’università ho chiesto il permesso temporaneo di frequentare online le lezioni, per un motivo che credo sia giustificato. Non ho chiesto di essere esentata dal tirocinio pratico, che potrei recuperare quando starò meglio.
Farò un nuovo intervento chirurgico, la fusione cranio-cervicale probabilmente dovrà essere portata inferiormente, io sono fiduciosa, starò meglio. Da settembre ad oggi, l’università non ha cambiato parere. Abbiamo quindi portato la questione in tribunale, aspettiamo che un giudice si pronunci.
Nel frattempo, io sto frequentando le lezioni, con tante difficoltà. Io abito a Caltanissetta, l’università si trova ad Enna. Ogni giorno, in auto, devo percorrere 40 minuti. In teoria, io dovrei rimanere a riposo, non sollecitare la colonna vertebrale in nessun modo. Nonostante questo, vado a lezione, con gran sacrificio. Senza poter gestire la nutrizione tramite il sondino come dovrei, perché non sono a casa, ma sono a lezione.
Gran sacrificio non solo mio, ma anche dei miei genitori, che ogni giorno mi accompagnano in auto e poi mi vengono a riprendere. Hanno un lavoro, una famiglia, tanti problemi, si trovano costretti a superare anche ostacoli che in un mondo giusto non avrebbero senso di esistere. Non ho alternative, perché non esistono mezzi pubblici adatti alle mie condizioni che mi permettano di muovermi in autonomia. Non esistono e nessuno pensa di crearli.
Io cerco di ripagare lo sforzo dei miei genitori combattendo, facendo del mio meglio. Purtroppo, non solo non è facile, ma questa condizione sta anche rischiando di compromettere il mio quadro clinico.
Io spero sempre che il prossimo intervento sia quello risolutivo, quello che mi permetterà di riprendere in mano la mia vita. Almeno per più di una manciata di mesi. Immagino una vita normale, da vivere anche lontana da casa, perché no? Mi piacerebbe poter essere in grado di frequentare la scuola di specialità, anche in un’altra città. Andare in ospedale, studiare, imparare a fare il medico. Adesso che sono costretta su una sedia a rotelle e faccio fatica a mangiare sembra impossibile, ma io non perdo la speranza, non voglio perdere la speranza.
Io voglio diventare un medico, un medico anestesista-rianimatore. Ce la sto mettendo tutta, senza pensare a quello che dicono gli altri. Finché ci sarà anche solo la minima possibilità di farcela, io mi impegnerò al massimo. Vorrei restituire quello che tanti mi hanno dato, credo che fare il medico mi aiuterà in questo. Penso di poter diventare un buon medico, mi piacerebbe dare il mio piccolo contributo perché tutti possano avere una diagnosi ed essere curati al meglio.
Io credo che chi, come me, ha sofferto tanto per le sue malattie, possa dare alla comunità medica un punto di vista diverso, forse contribuire a migliorare l’approccio ai malati, soprattutto a quelli che non sono facili da inquadrare in un pattern preciso.
Il fatto che io sia malata, che io sia su una sedia a rotelle, non permette a nessuno di decidere cosa io possa o cosa io non possa fare. Per me sarà probabilmente più difficile, più faticoso, rispetto a chi è sano. Chi vive in una condizione come la mia dovrebbe essere aiutato, non ostacolato. Anche solo con le parole, dovrebbe essere incoraggiato. Tutti hanno il diritto di costruire il proprio futuro.
È quello che sto provando a fare. Io credo che, se smettiamo di sognare, difficilmente riusciamo a vedere oltre, ad andare oltre il limite. Io ho avuto tantissime difficoltà nella mia vita e, se mi fossi fermata a guardare la realtà delle cose, avrei fatto molta fatica a trovare la forza di aprire gli occhi ogni mattina.
Tutto quello che faccio, l’energia che mi pervade, nasce dai miei sogni. Mi alzo ogni mattina perché ho un sogno, perché questo sogno mi dà la forza di andare avanti. Il desiderio di trasformare questo sogno in una realtà mi sta aiutando, nonostante tutto. Alcuni sogni sono destinati a rimanere tali, io non so che cosa mi succederà, ma quello che sto facendo ogni giorno è cercare appunto di trasformare i miei sogni in realtà.