Mi chiamo Massimo Mapelli, sono un cardiologo bergamasco che lavora al Centro Cardiologico Monzino, IRCCS di Milano. Come molti altri ospedali lombardi, anche se iperspecializzati, nell’ultimo anno siamo stati costretti, in maniera sincrona con le ondate della pandemia da COVID-19, a ridurre temporaneamente alcune prestazioni per pazienti cardiologici dovendoci dedicare alla gestione dei pazienti COVID-19, secondo uno schema di lavoro estremamente impegnativo da un punto di vista umano e professionale, a cui ci siamo tristemente abituati. La mia compagna, dott.ssa Paola Zagni, è una pediatra neonatologa del presidio Macedonio Melloni, Milano. Come ogni intensivista lavora con turni settimanali di guardie giornaliere e notturne oltre che con plurime reperibilità in caso di necessità. Siamo tra i “privilegiati” che hanno potuto ricevere un vaccino contro il COVID-19, un concetto che è bene ripetere allo sfinimento in questi giorni in cui assistiamo basiti a un cacofonico dibattito sulla loro ormai innegabile sicurezza ed efficacia.
Mio figlio E. sta per compiere 15 mesi e dallo scorso ottobre frequenta un asilo nido a Milano, talmente vicino a casa nostra che sporgendosi un po’ dal balcone riusciamo a intravederne la porta d’ingresso. Pur osservandolo attraverso la lente edulcorata dei genitori, è innegabilmente un bambino socievole e sorridente con grandi e piccini, ma non è di questo che voglio parlare. Data la storica carenza di asili nido pubblici nella città di Milano, in grado di soddisfare meno della metà del fabbisogno di tanti genitori che lavorano, lo abbiamo iscritto ad un asilo nido privato, ma non è neanche di questo che voglio parlare.
Da pochi giorni, con il passaggio in zona rossa, anche il nostro asilo nido ha chiuso i battenti. La notizia è rimbalzata sulle chat di Whatsapp dei genitori che nel fine settimana si sono dovuti organizzare per la cura dei piccoli nelle settimane a venire.
Nello specifico, non potendo (né volendo, data la situazione particolare) sospendere la nostra attività lavorativa da medici ospedalieri full time, questo ha significativo affidare E. a una girandola di persone organizzate secondo turnistiche serrate: tre diverse baby-sitter e quatto nonni ultrassessantacinquenni, di cui solo uno vaccinato e due residenti in Emilia Romagna. Pur non essendo particolarmente facoltosi, siamo probabilmente più fortunati rispetto alla media dei nostri coetani italiani e al momento possiamo permetterci di sostenere la retta dell’asilo e il costo delle baby-sitter. Non parlerò neanche di questo aspetto, che pure mi sembra cruciale per tante coppie giovani a cui si chiedono ingenti sacrifici.
Quello di cui vorrei parlare, e che non riesco davvero a capire, è il perché di tutto questo. Nell’asilo di E. sono in atto da molti mesi una serie di procedure precise volte a contenere il contagio: i bambini entrano nell’asilo a orari scaglionati e precisissimi, senza fare mai incontrare i genitori, a tutti viene ripetutamente provata la temperatura corporea e applicata la disinfezione delle mani, i bambini vengono divisi a piccoli gruppi (chiamate bolle) per limitare i contatti. Non da ultimo le educatrici indossano tutto il giorno mascherine FFP2 come consigliato dall’OMS per meglio contenere anche i contagi dalle temibili varianti e, da qualche settimana, sono anche vaccinate contro il COVID-19. Portiamo e ritiriamo personalmente E. dal nido compiendo un breve tragitto a piedi e da più di un anno centelliniamo le occasioni in cui lo facciamo incontrare ai nonni. Al lavoro ci proteggiamo per il contagio con tutti i presidi disponibili di cui siamo, in quanto scienziati, “tifosi sfegatati”. Difficile immaginare persone più entusiaste dei sanitari – quotidianamente esposti al volto più brutto della malattia – nel rispettare scrupolosamente tutti i duri provvedimenti che ci sono stati imposti nell’ultimo anno. Ma mentre continuiamo a inorridire di fronte alle fotografie della movida sui Navigli milanesi e spiegare instancabilmente a parenti ed amici che “no, non è come l’influenza!”, davvero non riusciamo a comprendere il motivo di chiudere un asilo nido.
Non faccio l’epidemiologo né lo psicologo, mi limito ad osservare da scienziato il mondo che ho intorno: E. questa settimana è passato dall’ambiente protetto di un singolo nucleo familiare e l’asilo in cui incontrava sempre le stesse persone (di cui tutti, tranne altri 4 bambini, vaccinati) a un numero estremamente superiore di esposizioni possibili al contagio. Le 6 persone in più richieste settimanalmente nella sua cura oltre ai suoi genitori appartengono a 4 nuclei familiari diversi e non sono vaccinate. Ognuna di queste, per esigenze personali o lavorative, incontra un numero potenzialmente elevato di altre persone che rappresentano esponenziali veicoli di contagio (clienti, parenti, mogli, figli, fidanzati, amici).
Non da ultimo, un aspetto logistico non indifferente: gli asili nido e le scuole materne, sono nella stragrande maggioranza dei casi scuole di prossimità, di quartiere. I genitori accompagnano i bambini a piedi o in macchina, evitando mezzi pubblici e spesso non incontrando nessuno. Baby-sitter e genitori, invece, sono costretti a muoversi talora di molti Km per raggiungere i piccoli che devono assistere, affollando tram, autobus, treni. Nel comitato tecnico scientifico che assiste nelle decisioni i nostri legislatori non siedono burocrati o politici, ma fior fiori di medici, epidemiologi, professionisti della sanità pubblica di alto rango. E’ davvero possibile che non abbiano fatto questa riflessione? Ecco, questo è quello di cui volevo parlare.