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La vigile attesa ha curato i pazienti affetti da COVID-19

La Dottoressa Carla Bruschelli fa il punto della situazione sulla condizione dei medici di famiglia a quasi due anni dallo scoppio della pandemia di COVID-19. Intervista in versione podcast e testo.

La Dottoressa Carla Bruschelli fa il punto della situazione sulla condizione dei medici di famiglia a quasi due anni dallo scoppio della pandemia di COVID-19. L’efficacia del lavoro dei medici di medicina generale, l’attuale sovraesposizione mediatica dei medici e le cure domiciliari di tipo “sartoriale”. Qui di seguito vi lasciamo anche una trascrizione dell’intervista per chi non avesse modo di ascoltare il podcast.

Oggi esanum è con la Dottoressa Carla Bruschelli, medico di famiglia, specializzata in medicina interna ed esperta in farmacologia. Ci siamo incontrati lo scorso anno a fine ottobre 2020, quando la medicina territoriale si trovava ad affrontare la cosiddetta seconda ondata della pandemia di COVID-19, una situazione critica per i medici di famiglia quella, complicata anche dalla ripresa delle scuole in presenza. Come vanno le cose oggi, rispetto allo scorso anno, per lei e per i suoi colleghi impegnati sul territorio?

La mia riflessione, credo condivisa da tutti i Colleghi, è che le cose oggi non vadano benissimo, sebbene in termini differenti rispetto ad un anno fa. Fortunatamente siamo meno oppressi dalla gravità della patologia. Rispetto allo scorso anno ci sono delle novità, non parlo delle varianti, ma delle vaccinazioni, che hanno sicuramente ridotto moltissimo la percentuale di ricoveri e la mortalità.
Ma, senza dubbio, per molti di noi si è complicata l'attività quotidiana a causa dell'aumento esponenziale delle incombenze di carattere burocratico, più che clinico. Questo è stato facilitato da un percorso secondo me invalidante la figura del medico di medicina generale in modo in modo ingiustificato.
Per comprendere meglio quello che voglio intendere bisognerebbe fare una piccola riflessione sui dati disponibili. In questo Paese, prima della pandemia, cosa accadeva? Secondo un'indagine dell’OCSE si era riscontrato, nel 2018, poco prima dell’arrivo della pandemia, che gli operatori sanitari in Italia erano inadeguati per la popolazione. Parlando di medici specialisti ospedalieri c’erano 60.000 unità in meno rispetto alla Germania, 43.000 in meno rispetto alla Francia. Gli infermieri erano molti di meno: 7 ogni 1.000 abitanti contro gli 11 della Francia e i  13 della Germania. Questo vuol dire che l’offerta ospedaliera non era adeguata. Se pensiamo ai posti letto, abbiamo la stessa situazione. Questa indagine evidenzia che i posti letto ordinari per 100.000 abitanti erano molti di meno rispetto alla media europea. Noi ne avevamo 314 rispetto ai 500 degli altri Paesi. I posti letto in terapia intensiva, il nocciolo della questione, erano 8,6 posti ogni 100.000 abitanti in Italia, contro i 33 in Germania. Con l'arrivo della pandemia, in Italia si è cercato di aumentare quei famosi 8,6 posti letto di terapia intensiva portandoli ipoteticamente fino a 14, senza riuscire a ottenere questo livello in tutte le regioni. Quindi un aumento piccolo di pazienti che ha dovuto fare ricorso al ricoveri ospedalieri ha gettato in crisi il sistema, perché sia i pronto soccorso sia tutta la medicina ospedaliera, così come è organizzata, non era minimamente in grado di far fronte alla situazione. Questo ha determinato un aumento del carico di lavoro per la medicina territoriale.
I dati dell’Istituto Superiore di Sanità, che si sovrappongono perfettamente ai dati raccolti personalmente all'interno della medicina generale, hanno dimostrato che in Italia il 95% dei pazienti affetti da COVID-19 è stato curato sul territorio. Questo vuol dire che la medicina territoriale italiana si è prodigata ben oltre le sue possibilità e con risultati ben più elevati rispetto alla medicina territoriale degli altri Paesi europei. A fronte di tanti risultati dimostrati, c’è qualcuno che dice l’esatto contrario, dando notizie false riguardanti l’inefficienza e l'inesistenza della medicina del territorio. Nonostante non sia organizzata, nonostante non sia finanziata, la medicina generale ha fatto fronte. Su oltre 4.500.000 pazienti positivi, 4.200.000 pazienti sono stati seguiti a domicilio.
Non bisogna poi dimenticare che a causa della COVID-19 c’è stata una chiusura degli accessi ospedalieri per motivi di sicurezza. Questo ha fatto sì che ci fosse una drastica riduzione degli screening e dei follow-up dei malati cronici Abbiamo avuto un aumento delle diagnosi di tumore, un aumento delle complicanze di malattie croniche, un aumento medio del 30% rispetto all’era pre-COVID-19 delle patologie psichiatriche legate agli effetti diretti (il Long-COVID) e indiretti della pandemia stessa, dovuti al grande disagio sociale. Se non ci fosse stata la medicina generale ad intervenire negli screening, nei follow-up e in tutto quello che poteva essere il supporto ai pazienti, probabilmente avremmo avuto dei numeri ancora più alti.
Il nostro impegno è stato ed è molteplice, con la gestione della malattia, la campagna di vaccinazione, la sensibilizzazione e l’educazione alla popolazione. Abbiamo anche supportato emergenze di natura specialistica delle quali In molti casi ci siamo fatto carico e oggi ci troviamo anche a dover supplire a funzioni burocratiche e amministrative laddove le istituzioni hanno cominciato ad essere carenti e hanno lasciato tutto al medico di medicina generale, che spesso vede procedere e operare ininterrottamente per far fronte a richieste amministrative senza sottrarre energie alla clinica quotidiana.

Secondo un sondaggio che abbiamo condotto tra i medici di medicina generale, oltre il 80% degli intervistati ritiene che la sovraesposizione dei medici sui media abbia avuto sulla pratica clinica più effetti negativi rispetto a quelli positivi. Qual è la sua idea sull’argomento?

Io posso considerarmi un'esperta di comunicazione televisiva. Sono ospite da oltre una decina d’anni come divulgatore scientifico in programmi nazionali televisivi, prevalentemente sulle reti RAI. Possiedo quindi un’esperienza precedente alla pandemia. Nell’ultimo periodo, certamente, anch'io sono stata senz'altro sovraesposta, prevalentemente nel ruolo di medico di famiglia.
Ci sono stati due percorsi entrambi negativi, a mio avviso, per lo svolgimento poi dell'attività clinica quotidiana, soprattutto del medico di famiglia. Da una parte una richiesta eccessiva di consulenze televisive rivolte a colleghi specialisti, in primo luogo virologi, infettivologi e pneumologi, che seppur grandi esperti nelle loro materie, hanno probabilmente una minore esperienza in qualità di comunicazione al cittadino. La principale esigenza che il cittadino ha è spesso  “dottore, lo dica con parole mie”. Altro errore è stato quello di voler fornire delle certezze. È giusto non allarmare la popolazione, ma non è possibile, per questo, fornire dati e informazioni di certezza laddove, a due anni dall’inizio della pandemia, di certezze non ne abbiamo. Stiamo imparando ogni giorno. Abbiamo le idee un po' più chiare, ma non del tutto chiare. Vi è stata probabilmente una sovrapposizione di messaggi dicotomici da parte di colleghi specialisti che sostenevano, con giusta ragione, la loro visione di colore bianco. Poi dopo, in un'altra trasmissione, i cittadini si trovavano di fronte un'altra visione, nera, sempre corretta.
Il cittadino confonde queste due informazioni e ovviamente non ne trae un messaggio univoco, ma si trova a disagio e si rivolge poi al medico di famiglia, che in questo modo si trova di fronte alla necessità di fornire delle certezze che non possiede. Non le possiede lui e non le possiede alcuno. Il compito è quello di veicolare un'informazione il più possibile che unisca il bianco e il nero dei due grandi specialisti che si sono pronunciati nelle dirette televisive, ma senza la loro autorevolezza. Questo è stato l’altro percorso ahimè fallimentare probabilmente nella medicina generale. Si è facilitata una informazione che metteva un po' in secondo piano la professionalità, in quanto non specialistica, dei medici di famiglia, sebbene medici della persona e quindi come tali decisamente più preparati ad affrontare un'emergenza proprio tarando una risposta sulla singola persona. Il medico di famiglia non ha avuto la stessa autorevolezza ed è stato coinvolto solo per dare risposte che non è stato possibile fornire da parte di alcuno. Tutto questo ha generato una grandissima confusione, ha facilitato la nascita di gruppi che hanno ostacolato un percorso metodologico-scientifico andando a puntare proprio sul disagio della popolazione disinformata, più che male informata e fornendo delle spiegazioni assolutamente non scientifiche a una frangia di popolazione che ahimè, è da comprendere, non ha potuto essere guidata per mano proprio dal medico di famiglia.

Abbiamo pubblicato sul nostro portale una guida ragionata alla terapia domiciliare COVID-19 per fare un po' di luce su un tema di cui si parla spesso, anche sui media generalisti. In un suo commento lei ha detto che forse questa pandemia qualcosa di buono lo ha portato ad esempio l'opportunità per i medici di somministrare terapia in modo personalizzato, con la stessa cura del sarto che confeziona un abito su misura.

Abbiamo constatato che, sebbene la medicina territoriale italiana partisse svantaggiata, perché non organizzata, si sono avuti risultati eccellenti nella gestione della patologia. Escludiamo alcune regioni, come la Lombardia, per una serie di dinamiche organizzative ospedaliere, ma se parliamo del resto della popolazione italiana, i risultati di cura domiciliare sono stati nettamente vincenti rispetto ad altri Paesi Europei.
Questo probabilmente è successo grazie alla vigile attesa e grazie alle indicazioni assolutamente chiare ed esaustive, che non riguardano l'utilizzo del solo paracetamolo (questa è stata una vera strumentalizzazione mediatica), con l’abilità acquisita sul campo di applicare le linee guida ai loro singoli pazienti. Il medico di famiglia è colui che utilizza il metodo olistico ed è l'unico a farlo davvero. Significa che riesce, attraverso una competenza e una conoscenza diretta della storia clinica e del vissuto del suo singolo paziente, a modulare le indicazioni terapeutiche che sono le linee guida per la popolazione. Io, conoscendo i fattori di rischio individuali preesistenti all'infezione da SARS-CoV-2, posso scegliere tra le varie tipologie di farmaco, posso scegliere come avviare da subito o in itinere un percorso terapeutico e, tenendo conto della condizione generale del mio paziente, utilizzare proprio l'arma vincente che è la tanto denigrata vigile attesa. In realtà è una metodologia clinica che noi utilizziamo spesso nel decorso delle malattie infettive. Si tratta dell’osservazione dei parametri clinici adeguati al tipo di patologia che stiamo gestendo, per decidere in itinere come modificare la terapia, ora per ora, giorno per giorno, nel singolo paziente. Questo ha fatto sì che la maggior parte, lo dicevano prima, il 95% dei pazienti, risolvesse la malattia a domicilio. Grazie alla vigile attesa, conoscendo il meccanismo fisiopatologico del virus - perché le idee chiare su questo le avevamo già a fine marzo 2020, quando si era capito perfettamente cosa faceva il coronavirus nell'organismo - si può sapere, tenendo conto del paziente, in quale momento può avvenire il viraggio con una replicazione massiva non contrastata dalla terapia domiciliare disponibile in quel momento, quella ovviamente validata e dimostrata secondo etica professionale. Chi prescrive senza indicazioni, più che linee guida anche schede tecniche dei farmaci, è fuori dal codice deontologico. Qualunque trattamento, anche con integratori, al di fuori delle indicazioni delle schede tecniche, deve essere convalidato da un consenso informato fornito dal paziente e da un esame obiettivo espletato su quel singolo paziente, cosa che non può certo essere fatta da un medico che non conosce quella persona e tutte le sue condizioni generali.
Le cure sartoriali sono il metodo che alla fine, magari inconsapevoli, ha seguito la maggior parte dei medici di famiglia. Sarebbe importante oggi, nel momento in cui si parla sempre di più di medicina personalizzata e di cure individuali, rivalutare, rivedere questo concetto. Trasformiamo in risorsa quello che abbiamo imparato, riproponiamo quello che negli ultimi anni sta fornendo indicazioni e che potrebbe essere utile anche nel futuro della telemedicina, parlo della medicina delle 4P.  Facciamo un passo indietro nella metodologia clinica per farne due in avanti nella presa in carico nella cura del singolo paziente. Noi dobbiamo utilizzare la medicina predittiva, che si basa sui fattori di rischio, la medicina preventiva, che va a prevenire le complicanze della malattia, ma tutto va  personalizzato, tenendo conto del singolo fattore ambientale e della storia personale di ogni individuo. La medicina partecipativa, ossia l’acquisizione delle informazioni da parte della persona con l'adozione di scelte consapevoli.
Noi siamo stati sicuramente i medici che hanno parlato di più con le parole che merita un cittadino e non un tecnico, siamo i medici che hanno parlato di più con i singoli cittadini. Nel bene e nel male, ma i risultati vanno a favore della medicina territoriale italiana, nonostante le sue difficoltà.