I pazienti colpiti da infarto affetti da depressione o ansia prolungata sono a più alto rischio di morte
Gli sbalzi d'umore temporanei, se non sono troppo frequenti o drammatici, sono una parte normale della vita. Sentirsi un po' depressi dopo un attacco di cuore potrebbe anche essere una buona cosa se facilita il riposo. Tuttavia, l'angoscia emotiva cronica rende più difficile adottare i cambiamenti di stile di vita che migliorano la prognosi dopo un attacco di cuore.
I sintomi della depressione e dell'ansia, cioè l'angoscia emotiva, sono relativamente comuni dopo un infarto del miocardio (IMA). Revisioni sistematiche hanno riscontrato una prevalenza di circa il 30% per i sintomi depressivi e tra il 30% e il 40% per l'ansia. Il disagio emotivo dopo un IMA è associato non solo ad una qualità di vita più bassa e costi sanitari più elevati , ma anche ad uno spettro di esiti clinici negativi.
Uno studio recente, per la prima volta al mondo, ha esaminato la prognosi dei pazienti colpiti da infarto miocardico in base alla durata del disagio psichico successivo all’evento. Lo studio ha incluso 57.602 pazienti dei registri nazionali SWEDEHEART che sono sopravvissuti almeno un anno dopo un primo attacco di cuore. L'angoscia emotiva (incluse depressione e ansia) è stata misurata a 2 e 12 mesi dopo l'attacco di cuore. I pazienti sono stati poi seguiti per una mediana di 4,3 anni.
Lo studio evidenzia che il disagio emotivo persistente oltre 1 anno influisce sulla prognosi, mentre il disagio a breve termine non lo fa. Rispetto ai pazienti non affetti da stress emotivo, quelli che si sentivano depressi o ansiosi in entrambi i momenti avevano rispettivamente il 46% e il 54% di probabilità in più di morire durante il follow-up per cause cardiovascolari e non cardiovascolari. I pazienti che si sentivano depressi o ansiosi solo al secondo mese, non hanno mostrato un aumento del rischio.
Più del 20% dei pazienti rientrava nella categoria del disagio emotivo persistente. Ricerche precedenti mostrano che questo stato è legato principalmente a fattori socio-demografici, piuttosto che clinici. Ad esempio, l’essere più giovani, donne, nati all'estero e disoccupati.
"Sembra che il Matthew effect* si applichi anche alla riabilitazione cardiaca" scrivono gli autori. "Chi dispone di migliori risorse, comprese quelle economiche e l’istruzione, riesce a gestire meglio le situazioni difficili e ad accedere alle migliori cure. Chi vive in situazioni di disagio, come gli immigrati fuggiti da situazioni difficili hanno meno probabilità di ricevere il giusto trattamento”.
Circa il 15% dei partecipanti si è sentito ansioso o depresso a 2 mesi, ma poi si è ripreso. Secondo gli autori si trattava probabilmente di persone con uno status socio-economico superiore che hanno buoni meccanismi di gestione degli eventi traumatici.
Il 10% dei pazienti dello studio si sentiva angosciato solo a 12 mesi. Per il team di ricerca è improbabile che questo disagio sia correlato all'infarto. Si tratta probabilmente di pazienti con disagio persistente in termini di istruzione, stato civile e lavoro.
*Col termine Matthew effect, in sociologia si indica un processo per cui, in certe situazioni, le nuove risorse che si rendono disponibili vengono ripartite fra i partecipanti in proporzione a quanto hanno già. In inglese questo viene espresso coll'espressione “the rich get richer and the poor get poorer”. Il nome deriva dal versetto 25, 29 del Vangelo di Matteo che recita: «Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha.» (Wikipedia)
Fonte: Lissåker CT, Norlund F, Wallert J, Held C, Olsson EM. Persistent emotional distress after a first-time myocardial infarction and its association to late cardiovascular and non-cardiovascular mortality. Eur J Prev Cardiol. 2019 Jun 3:2047487319841475. doi: 10.1177/2047487319841475.