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Medici in prima linea

Sei casi di coronavirus in Lombardia. Un uomo di 38 anni è in terapia intensiva nell'ospedale di Codogno. Ricoverati al Sacco di Milano anche la moglie, all'ottavo mese di gravidanza, e un collega. E succede che tua moglie lavori proprio nell'ospedale di Codogno.

La vita del medico è difficile, ma lo è anche quella di chi vive accanto a un medico

Sei casi di coronavirus in Lombardia. Un uomo di 38 anni è in terapia intensiva nell'ospedale di Codogno. Ricoverati al Sacco di Milano anche la moglie, all'ottavo mese di gravidanza, e un collega. Tre casi sono positivi al primo test.

Da quando è nato il secondo bambino, tutto è diventato più complicato da gestire. Avere dei bambini è un’esperienza meravigliosa, ma molto faticosa. Soprattutto se mamma fa il medico anestesista-rianimatore.
La mattina è la parte più difficile della giornata. Bisogna riuscire a fare tanto in tempi brevi, cercando di non arrivare in ritardo all’asilo nido, alla scuola materna, al lavoro. “Forza, che è tardi” è l’espressione che più si sente al mattino a casa mia, son sicuro che anche il gatto, se non fosse impegnato a dormire, saprebbe ripeterla. Sveglia, colazione, in bagno, lancio dei vestiti e, come fulmini, a mettersi il giubbotto e giù per le scale.
“Oggi non ti posso aiutare coi bambini, prendo la macchina e vado a Codogno”, mi dice Lei. Il medico Lei lo fa all’ospedale di Lodi, ma di tanto in tanto vien messa di turno anche all’ospedale di Codogno, una cittadina di quindicimila abitanti poco distante da Piacenza. Lei prende la macchina e va, mentre io prendo i nani e li porto uno al nido e l’altro alla materna. Terminato il giro asili, inizia la giornata vera (e già sei stanco).

Succede poi che ci si incontra alla sera, tardi, dopo una lunga giornata. E succede che Lei ti dica “Sai, A*** è bloccata in ospedale, non può tornare a casa. È arrivato un paziente con insufficienza respiratoria e molto probabilmente si tratta di un’infezione da COVID-19. Il paziente non è stato in Cina, ma pare sia stato a contatto con un italiano che ci è stato e che non si è sottoposto ai controlli”. E tu? Dico io, cercando di immaginare nella mia testa quella linea che sulla mappa congiunge Wuhan a Codogno. “Io ero in sala, non sono andata in reparto. La mia collega adesso è là, molto preoccupata. Non può uscire, non so nemmeno se ha qualcuno che le possa portare un cambio, vive sola qui”.
Vado a letto per nulla  tranquillo, sapendo bene che il paziente arrivato a Codogno non potrà essere un caso isolato, che il coronavirus di Wuhan è arrivato a pochi chilometri da casa mia ormai. O, forse, a pochi centimetri, dorme nel mio letto accanto a me. E nella stanza accanto ci sono due bambini che insieme non fanno 6 anni.

Questa mattina Lei va in ospedale, come ogni giorno. Su tutti i media nazionali ed internazionali si sta parlando della diffusione del coronavirus in questa piccola città alle porte di Milano. Chiuso l’ospedale a Codogno, l’ospedale di Lodi sta raccogliendo decine di pazienti che potrebbero essere entrati in contatto col virus di Wuhan. Le notizie parlano dei primi 6 casi di coronavirus in Lombardia, numero destinato ad aumentare, certamente.
Lei è lì, in terapia intensiva, armata della sua mascherina protettiva e del suo coraggio. E io vorrei tanto riportarla a casa, lontano da tutto quello che potrebbe succedere o che forse è già successo. Perché quello che si sta vedendo ora in ospedale è solo la punta dell’iceberg. L’unità di crisi è insediata, tutti in ospedale stanno lavorando al meglio delle loro possibilità. Lei mi scrive che probabilmente dovrà lavorare anche domani e dopo, niente weekend con i bambini quindi, perché i colleghi entrati in contatto col virus sono in quarantena, sono in pochi, il lavoro è tanto.
Lavoro, sì, perché di questo si tratta. Quello del medico è un lavoro come un altro. O forse no.