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Non è andato tutto bene

Nella “Giornata nazionale del personale sanitario e sociosanitario, del personale socio-assistenziale e del volontariato” vi riportiamo una breve riflessione sulla difficile situazione del sistema sanitario in Italia.

20 febbraio 2020

Non sono mai stato uno a cui piacciono le persone, in generale. Faccio il medico, perché mi piace la medicina, ma le persone no, non mi sono mai piaciute. A parte alcune, poche. Dopo la pandemia, credo che mi piacciano ancora meno.
Quel giorno di 4 anni fa, mi ritrovai catapultato in una realtà che non sembrava reale. Io, i miei colleghi, la mia famiglia - e di lì a poco il mondo intero. Bloccato in ospedale, senza poter tornare a casa, perché nessuno sapeva quanto quel virus fosse pericoloso, come ci dovessimo proteggere, chi, soprattutto chi, dovessimo proteggere. Le mie bambine, il mio pensiero era per loro, che a casa mi aspettavano. Il paziente era lì, con una TC polmonare che raramente avevo visto prima. Il telefono squillava. Nessuno sapeva nulla. Noi non sapevamo cosa fare, nessuno sapeva cosa si dovesse fare. Quella sera rimasi in ospedale, mi addormentai verso le 2, ero in piedi dalle 6 della mattina. Pensavo a quel paziente, a come aggiustare quei valori che no, non riuscivamo a far rientrare. Non ne venivamo a capo. E cercavo informazioni su quel che stava succedendo in Cina già da settimane. Mai avrei pensato che la Cina potesse essere così vicina ad una piccola cittadina della Lombardia.
Da lì, tutto iniziò ad accelerare, come sulle montagne russe. “Andate al mare, prendi le bimbe e andate al mare, da qualche parte. Tutta la zona è a rischio di contagio”. E poi la notte in albergo, le giornate infinite, le divise di plastica zuppe di sudore, i segni viola sul viso, il telefono che squillava sempre, il sacco dei vestiti sullo zerbino di casa. Era la fine di febbraio, il Pronto Soccorso lavorava senza sosta. Io vedevo dalla finestra del sesto piano la fila infinita di ambulanze che aspettava. Nel mentre, pensavamo se, oltre al ripostiglio, ci fossero altri posti dove poter mettere un letto. Se da qualche parte ci fosse un altro ventilatore. Avevamo triplicato i posti letto, il telefono squillava sempre. E non sapevamo cosa fare, nessuno sapeva quale terapia funzionasse. Il telefono squillava sempre. Avevamo la consapevolezza che quelli che non entravano in rianimazione, probabilmente non ce l’avrebbero fatta. In quella centrifuga di pensieri e di azioni, dovevi decidere chi provare a far sopravvivere e chi lasciar andare. Ma quello che temevo di più, era che quel virus colpisse i bambini. Perché non avrei potuto sopportare di vedere lì dei bambini, così tanti bambini in condizioni critiche, tutti insieme, senza sapere cosa fare.
Passavano i giorni, sempre uguali, poche ore di sonno, i contagi crescevano in tutta Italia, le dichiarazioni dei politici, in televisione tutti improvvisamente virologi, le scuole chiuse, l’assalto ai treni in Stazione Centrale, il lockdown. Dal sesto piano la fila di ambulanze non diminuiva mai, il telefono squillava, le persone morivano. Facevamo da cintura alle grandi città, eravamo davvero la prima linea. Il triage era sempre di più una stretta al cuore, l’età dei pazienti scendeva. Le montagne russe continuavano, tra I bollettini delle 18, i grafici e le curve condivisi sui social, gli epidemiologi improvvisati, i decreti del governo, le canzoni sui balconi, e il lievito che iniziava a scarseggiare. E il telefono squillava, continuava a squillare.

Andrà tutto bene

Un giorno, dal mio angolo al sesto piano, vidi uno striscione attaccato alla ringhiera del palazzo di fronte che recitava: “Eroi. Grazie a voi andrà tutto bene”. Andrà tutto bene un cazzo. Odiavo quella frase e gli arcobaleni. A malapena ho sopportato quelli che le mie figlie hanno disegnato e appeso alla porta per me. Non andava bene per niente e in quel momento non c’era nessuna previsione che le cose potessero andare meglio. Eravamo a marzo e speravamo che l’estate attenuasse gli effetti del virus, questa era la situazione. Tanti pazienti critici, tutti insieme, senza una terapia davvero efficace; quanto potevamo reggere? Nel mentre, centinaia di paper pubblicati ogni giorno, quasi tutti senza nulla di scientificamente valido, per lo più autoreferenziali e autopromozionali. Perché sì, in quel momento c’era chi aveva tempo per pubblicare anche il nulla cosmico, pur di mettere il proprio nome nel maggior numero possibile di articoli sulla pandemia.
Io indossavo i doppi guanti e lavoravo. Non riposavo da un mese, riuscivo a vedere le mie bambine sì e no la sera, quando arrivavo a casa e loro a letto dormivano. Io, i miei Colleghi, gli infermieri e tutti quelli che ci mettevano l’anima, da una parte - in ospedale e fuori - per superare davvero l’emergenza. Dall’altra quelli che facevano il pane e andavano a fare la spesa dieci volte al giorno, perché stare a casa era troppo faticoso.
Le persone hanno iniziato a piacermi ancora meno. Oggi, dopo quattro anni, mi piacciono meno ancora. “Nulla sarà più come prima” dicevano. “Ne usciremo migliori”, ho sentito anche questa. Il risultato netto è che ne siamo usciti peggio. Cosa è rimasto di quell’esperienza, a parte una moneta commemorativa da due euro?

Un sistema (quasi) al collasso

In Italia mancano fondi per la sanità pubblica, lo si legge ovunque. Questo porterà inevitabilmente a gravissime conseguenze, prima fra tutte la mancanza dei servizi essenziali e l’inaccessibilità delle cure per chi è più svantaggiato. Inoltre, mancano visione e competenze per poter davvero migliorare le cure e la vita di chi è professionalmente impegnato a curare. Forse questo è ancor peggio della mancanza di fondi.
Il burnout è la spada di Damocle sulla testa di ogni medico, ma nessuno sembra preoccuparsene in modo serio, nonostante i continui abbandoni della professione e l’aumento del disagio psicologico, che in alcuni casi arriva addirittura al suicidio. In questo Paese un medico che festeggia la pensione distruggendo il proprio telefono diventa un meme divertente, non un elemento su cui ragionare. Così è, mi pare.
La sanità vive senza strategia, senza pianificazione, in balia degli slogan del politico di turno che pensa di risolvere tutto facendo iniziare a lavorare chi è in formazione o mettendo in busta paga 100 euro al mese. Un'elemosina, in pratica. Rispetto agli altri Paesi europei, abbiamo stipendi ridicoli se rapportati al carico di lavoro e alle responsabilità che abbiamo. Quella del medico è una professione, ma spesso qualcuno lo dimentica.
Mentre spuntano come funghi articoli sull’importanza dei sistemi di intelligenza artificiale e della meravigliosa tecnologia che in futuro aiuterà i medici a migliorare le cure dei pazienti, io devo compilare la cartella elettronica su due programmi diversi, che non si interfacciano tra loro, e stampare tutto, firmarlo e timbrare. La cartella elettronica cartacea, ecco cosa abbiamo inventato.
“Eroi” dicevano. Poi rischi di prendere un pugno in faccia se dici al figlio di un ultranovantenne con malattia terminale che non si può fare nulla per il padre, se non accompagnarlo alla fine nel modo più dignitoso possibile. E un pugno in faccia vorresti tirarlo a quel collega (con la “c” minuscola) che anzichè prendersi le responsabilità, lascia sempre ad altri il lavoro più difficile.
Festeggiamo il personale sanitario oggi, con comunicati stampa e video celebrativi. Il problema è che, quando arriverà la prossima pandemia - che arriverà, le previsioni concordano su questo -  non saremo pronti. Di nuovo. Di nuovo dovremo improvvisare, inventare una strategia, constatare che quando avremmo potuto preparare un piano d’azione, non lo abbiamo fatto. Constatare, di nuovo, che in questo Paese nessuno è mai responsabile di niente. Se fai un danno, rischi solo di essere promosso dove farai meno danno.
Quel giorno di quattro anni fa poteva cambiare tutto. A volte penso che non ne valga la pena. Che, in fondo, l’idea di aprire una piccola libreria per bambini non sia affatto male.