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Le parole che mi hanno salvato

Martin Ambroise è un medico di medicina generale a Digione. È impegnato nella formazione dei giovani medici. Nel suo passato da studente di Medicina, ha affrontato momenti bui e ha rischiato il suicidio.

Martin Ambroise

Martin Ambroise è un medico di medicina generale che esercita a Digione con l'associazione SOS 21. In qualità di supervisore della formazione universitaria, prende in carico i tirocinanti di medicina generale e, da ottobre 2022, anche gli studenti del terzo anno. È inoltre rappresentante sindacale, eletto nell'URPS e membro del Collège Bourguignon des Génistes Enseignants. In questa veste, partecipa alla formazione dei medici MSU (supervisori di formazione, sono medici che prendono in carico gli studenti di medicina a vari livelli per consentire loro di scoprire la medicina generale in ambito ambulatoriale).
Nel suo blog "Dijon, Fourchette et Stéthoscope", Martin Ambroise recensisce i ristoranti della zona di Digione, per il piacere di partager auprès de [ses] consœurs et confrères, mais aussi auprès de toutes celles et tous ceux qui aiment la chair, la bonne chair, le vin et une certaine idée de ce qu’est l’esprit carabin.
Recentemente, Martin Ambroise ha postato su Twitter un'esperienza completamente diversa, risalente agli anni in cui era studente di Medicina. Rivelando alcuni momenti bui della sua storia personale, si è rivolto ai futuri medici e ha concluso come segue: "Ai tirocinanti e agli specializzandi: anche se sono immerso nella mia Borgogna, in qualsiasi parte della Francia voi siate, potete contattarmi se vi assale il male di vivere".

2012

Due fiale di potassio. La fine di una vita è in fondo a una busta. L'ho preso in reparto qualche giorno fa e ora è tutto a casa.
Tutto ciò che serve sono due fiale. È così facile quando sei un medico. È tutto a portata di mano. È molto più facile che fare il salto di qualità. Ci ho pensato, certo, il nostro reparto è al quarto piano. Ma c'è la paura, la paura di farsi male.
Ho programmato di farlo venerdì, dopo il mio turno di guardia. Mi sto già figurando tutto, immagine dopo immagine, nella mia testa.

Gli occhi di mio padre 

La medicina non è mai stata la mia vocazione. Tuttavia, ho sempre voluto essere al servizio degli altri: al liceo sognavo di diventare giornalista, giudice, avvocato o insegnante. Ma ho dovuto fare i conti con le proiezioni di mio padre.
Figlio di un artigiano, diventato insegnante di scuola superiore, mio padre aveva aspettative molto specifiche su di me, il suo unico figlio. A volte l'ascensore sociale ti porta dove non vuoi andare, ti schiaccia al soffitto, per così dire. Le mie due sorelle erano meno sotto pressione. Sorprendente?  
La professione di medico era abbastanza nobile agli occhi di mio padre. Per me era un modo per avvicinarmi un po' di più a una figura eroica: l'altro mio nonno. Arrivato dalla Romania all'età di 17 anni, era un medico ebreo e membro della Resistenza che curava i suoi coetanei nella macchia.
Alla fine, ho scelto la Medicina come se fosse una scala antincendio. Era un modo per andare verso l'alto, ma anche per emanciparmi e liberarmi da troppe pressioni.

Ho sempre cercato modelli brillanti, ma soprattutto benevoli. Come il professore che adoravo quando ero al secondo anno al punto che, come lui, volevo specializzarmi sulle patologie della tiroide. Perché? Perché mi affascinava tanto la sua passione per l'insegnamento quanto il modo in cui le sue dita correvano quando operava.
Ce n'erano altri, alla Faculté Lyon Sud. Grandi chirurghi, profondamente umani, carismatici. Come tirocinante e poi come specializzando, volevo essere come loro. E poi ho trovato in sala operatoria un sostegno reciproco e una libertà di pensiero che mi sono sempre rimasti impressi.

Fallimenti e rotture

Quindi si partiva per fare Medicina. Dovevo ancora passare, a cominciare dall'esame di ammissione. E ci riuscii, ma al secondo tentativo. Per mio padre il fallimento non esisteva. Questo tabù sul fallimento è molto comune tra gli studenti di Medicina.
Gli anni passarono fino al concorso nazionale. Ho fatto bene l'ECN (Épreuves Classantes Nationales). Avrei potuto fare altrimenti? Mi ritrovai a fare il tirocinante di chirurgia. Ancora una volta fui risucchiato verso il "top", anche se già avevo qualche pensiero sulla medicina generale.
Ma le cose andarono presto male. Il passaggio alla specializzazione fu brutale. All'improvviso, avevi molte più responsabilità. Dopo tre semestri, due di chirurgia addominale e uno di ortopedia, sentivo di essere fuori di testa. La posta in gioco stava diventando troppo alta per me.
Lo stress della chirurgia o ti trascende o ti blocca. Io mi sentivo soffocare.  Quando i miei colleghi specializzandi si entusiasmavano per le nuove sfide, io andavo nel panico. Appendicectomie, vesciche... Le operazioni semplici andavano ancora bene. Ma quando dovevo fare una scelta in sala operatoria, l'ansia mi assaliva.

Allora mi chiusi in me stesso, sopportavo e facevo del mio meglio. Le mie valvole di sfogo: partecipare al sindacato degli specializzandi e navigare sui social network. La causa scatenante fu una rottura sentimentale. Avrebbe potuto essere qualunque altra cosa. A quel punto avevo già rotto con me stesso.

Parole che contano il triplo

Ciò che mise in allarme uno dei miei supervisori, l’ho saputo in seguito, furono i miei silenzi al lavoro e sui social network.
Tre giorni prima di quel famoso venerdì, quando avevo pianificato tutto, mi invitò nel suo ufficio. Era un uomo molto religioso. "Martin, quando te ne andrai, non dovrai rimpiangere la tua vita". Le sue parole mi diedero una scossa, credo che mi abbiano salvato. 
Quindi, quel venerdì sera, invece di tornare a casa dopo il turno e suicidarmi, mi ritrovai in lacrime nell'ufficio del mio primario. "Ho visto alcuni di loro arrivare alla fine del corso e distruggersi. non lo fare anche tu”.
Quel giorno, con tatto e intelligenza, mi mostrò un'altra via d'uscita. Non sarei più dovuto scappare. "Smetti di fare chirurgia, ma prima finisci il semestre tranquillamente, partecipa, non fare il soprammobile. Sei ancora uno specializzando in chirurgia a tutti gli effetti". Improvvisamente la  coltre di piombo si sollevò. Durante la mia ultima operazione, al suo fianco, mi riuscì tutto.
Iniziai il corso per Medicina generale e convalidai i miei trimestri serenamente. La medicina aveva smesso di divorarmi. 

Un silenzio penetrante

Non li dimenticherò. Il tirocinante di Digione che si è suicidato. L'amica, una giovane anestesista, che si è tolta la vita in un hotel il giorno di San Valentino. Solo pochi giorni prima sorrideva dall'alto delle sue montagne. Non dimenticherò nemmeno la studentessa del primo anno che era diventata così scheletrica che le chiesi, davanti a sua madre, di abbandonare Medicina. Cosa le è successo dopo il ricovero in ospedale?

Chi li ha aiutati? Chi non l'ha fatto? Chi avrebbe dovuto farlo?

La facoltà di Medicina non ha posto per gli studenti che temporeggiano. Non ci si lamenta, non si dubita, si va avanti. In ogni caso, il tempo è così breve durante questi studi che pensare a se stessi sembra superfluo.
Certo, ci saranno sempre voci, come quelle dei miei insegnanti, che diranno ai giovani che soffrono che possono trovare un'altra strada. Ma questa sofferenza viene svelata raramente.
Ora ci sono unità di consulenza e sostegno nelle nostre facoltà di Medicina. La buona volontà sembra esserci. Ma in questi mondi chiusi, dove i vostri professori saranno domani i vostri colleghi, quanto credito si può dare alla riservatezza? Per un medico che è abituato a tenere per sé i segreti dei suoi pazienti, non è così facile tenere per sé quelli dei suoi colleghi.
Ripenso alla giovane specializzanda che ha raccontato al primario del reparto di Medicina generale della sua terapia psicologica, una confessione che le si è ritorta come un boomerang durante una discussione successiva.
Il rifiuto di fallire e l'arte di dissimulare quando questo si verifica sono interiorizzati fino in fondo dagli studenti di Medicina. È difficile sapere se le facoltà stesse siano la causa di questo fenomeno o se semplicemente lo alimentino. Ma mi chiedo...

Quando uno specializzando si è suicidato a Digione, nessuno ha informato gli altri specializzandi. Lo hanno saputo solo tre settimane dopo. Non c'è stata alcuna comunicazione ufficiale da parte della facoltà. La stessa direzione dell'Università non conosceva il motivo della sua morte. Com'è possibile?  

Allo stesso tempo, un'altra specializzanda, quella che era stata sottoposta a una consulenza psicologica che le si era ritorta contro, era scappata. Temendo che anche lei - che si trovava in uno stato molto fragile - potesse commettere un suicidio, ho allertato l'ARS (Agence régionale de santé). Un errore, a quanto pare: sospettato di usare questa storia per alimentare un conflitto personale, sono stata diffamato dalla stampa locale e dai Colleghi. È facile dare addosso a qualcuno, se si osa parlare.
L'Ordine ha tentato di frenarmi, io ho cercato di contenermi. Ma, forse troppo attaccato alla mia libertà di parola, la mia indignazione si riaccendeva alla prima occasione. Di conseguenza, ho ricevuto un ammonimento dall'Ordine per aver violato il mio dovere di assistenza. Non ho rimpianti, spero solo che questo abbia smosso le acque.

Il nostro ruolo

È innegabile che la sofferenza di studenti e medici cominci a essere presa in considerazione. L'Ordre des Médecins e l'URPS (Union Régionale des Professionnels de Santé) stanno reagendo, creando a loro volta delle unità di supporto. Resta da vedere se avranno più successo di quelli delle facoltà. Soprattutto, penso che oltre a queste risposte istituzionali, i medici stessi possano essere coinvolti in prima persona. Anche, nel mio caso, attraverso i social network.    

Perché ho raccontato la mia storia su Twitter? So che questi social sono spesso dei pozzi neri. Ma penso ancora che abbiano un senso: l'anonimato che offrono apre la possibilità di creare un legame discreto, in qualsiasi momento, con qualcuno che ha già vissuto quello che stiamo vivendo noi. Volevo anche rendere omaggio ai tre professori che mi hanno salvato e ai Colleghi che mi hanno circondato.  

Come tutti sappiamo, non è facile per studenti, specializzandi o medici chiedere aiuto. Non fa parte della nostra cultura. Spetta a noi tendere loro la mano. In modo che nessuno di loro torni a casa da solo il venerdì sera, senza una prospettiva per il futuro, con le tasche piene di potassio.
 

martin ambrosie
Dr. Martin Ambroise