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Sara: donna, medico, moglie, presto mamma

La Dottoressa Vannicola è un giovane medico che lavora nel reparto di Terapia Intensiva degli Ospedali Riuniti di Ancona. L’abbiamo incontrata pochi giorni prima della nascita del suo primo figlio.

Intervista alla Dottoressa Sara Vannicola (@AnesteTista su Twitter)

La Dottoressa Vannicola è un giovane medico che lavora nel reparto di Terapia Intensiva degli Ospedali Riuniti di Ancona. L’abbiamo incontrata pochi giorni prima della nascita del suo primo figlio e abbiamo chiacchierato del suo lavoro da medico intensivista, della conciliazione tra vita professionale e vita privata, di integrazione di genere.
 

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Il tweet con cui la Dr.ssa Vannicola condivide la sua gioia per l'assunzione presso gli Ospedali Riuniti di Ancona
 

Come è nata la scelta di specializzarsi in Anestesia, Rianimazione e Terapia del Dolore?

Ho scelto questa specializzazione dopo la laurea. Terminata l’università ebbi un momento di smarrimento, non sapevo che direzione prendere. In quel periodo iniziai a lavorare come medico di guardia in una clinica privata, come spesso fanno tanti medici neo-abilitati.
In quella clinica privata mi trovai ad affrontare, spesso per la prima volta, diversi casi clinici, a volte anche complessi. Era la mia prima esperienza, quindi cercavo frequentemente un confronto con i colleghi più esperti. Tra loro, quello che mi dava maggiore sicurezza era l’anestesista di guardia. Questa figura c’era sempre, iniziò a diventare un riferimento importante. Dopo la sua consulenza avevo sempre una risposta, sempre una soluzione. Questo non succedeva quando mi confrontavo con altri specialisti. L’anestesista  riusciva ad inquadrare il problema e a risolverlo, sembrava l’unico che avesse una visione complessiva del paziente e non del singolo sintomo.
Rimasi affascinata da questa esperienza e, piano piano, mi appassionai alla materia. Iniziai a studiare questa disciplina che, a dire il vero, durante l'università non avevamo approfondito molto. Per me diventava sempre più chiaro che quella fosse la mia strada.

Se per qualche motivo non avesse fatto l’anestesista-rianimatrice, quale altra specialità avrebbe scelto?

Domanda difficile. Preparai la mia tesi di laurea in ginecologia, in quel periodo avevo in mente di fare la ginecologa. Non ne ero molto convinta, a dire il vero. Da studentessa frequentai molti reparti, senza mai essere particolarmente colpita da nessuno. Mancava sempre qualcosa, mi sembrava tutto sempre troppo limitato.
Credo che se non avessi fatto l’anestesista-rianimatrice, allora avrei fatto l’anestesista-rianimatrice. Durante la mia prima esperienza lavorativa mi resi conto che spesso, in un ospedale, il vero internista, la vera figura di riferimento, che riusciva ad avere una visione complessa e completa del paziente, era l'anestesista. L’unico che riesce a confrontarsi con tutti gli altri specialisti, siano cardiologi oppure chirurghi. Credo sia una conseguenza dell'alta specializzazione, che ha portato molti medici ad essere straordinariamente competenti, ma in un ambito limitato. In ospedale non si contano le consulenze fatte dagli anestesisti in tutti i reparti  di fronte a un caso clinico che presenti un minimo di complessità.

Si tratta di una specializzazione, soprattutto il ramo intensivo, che in Italia implica un lavoro organizzato su turni, anche superiori alle 10 ore consecutive: diurni, notturni, festivi. Aveva considerato questo aspetto quando ha fatto la sua scelta? Aveva il timore che questa organizzazione del lavoro potesse avere ripercussioni sulla sua vita familiare e sociale?

Mi reputo una persona molto razionale, per cui, ai tempi della scelta, ci ragionai molto. Sapevo quello che mi aspettava, che avrei potuto essere al lavoro il 25 dicembre e che avrei potuto mancare una cena importante a causa di un’urgenza. Sapevo che avrei lavorato su turni, che avrei lavorato tanto, che avrei lavorato in un ambiente molto competitivo. Il quadro mi era chiaro.
Tuttavia mi era altrettanto chiaro che volevo che quello diventasse il mio lavoro, il lavoro per cui avevo studiato tanto e che mi avrebbe reso felice alla fine della giornata.
Va detto che questa vita impatta in modo diverso sulle singole persone, molto dipende da come sei fatto tu. A me non è mai interessato delle feste comandate o del weekend in montagna, di fare le cose necessariamente quando le fanno anche gli altri. Per me lavorare su turni ha tanti aspetti positivi. Se lavoro di domenica, ho un giorno libero in settimana, se mi organizzo posso andare in montagna senza trovarmi in fila per fare qualunque cosa. Se faccio la notte, il giorno dopo riposo. A me va bene così, riesco ad organizzare la mia vita privata senza problemi. In modo diverso da chi lavora in ufficio dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 18, certo. Ma, per come sono fatta io, va assolutamente bene così.
Quando facevo le mie riflessioni sulla possibilità di scegliere la scuola di specializzazione in Anestesia e Rianimazione chiesi consiglio ad una anestesista. Lei mi disse che lavorare senza orari e giorni fissi, su turni, mi avrebbe aiutata se avessi voluto un bambino. Ai tempi non capii esattamente quale vantaggio avessi potuto avere, ma, ora che sto per diventare mamma, tutto quelle parole mi risultano più chiare.

A distanza di circa 8 anni, in attesa di diventare presto mamma, rifarebbe quella scelta?

Rifarei quella scelta, sì. Probabilmente oggi il processo decisionale sarebbe meno indipendente dalla mia famiglia, perché questa scelta non riguarderebbe più solo me, ma anche le persone che mi stanno accanto, primo fra tutti il mio compagno.
Sono ancora convinta che questa sia la strada migliore per per me, ma sarebbe difficile vivere serenamente se non avessi accanto una persona che lo comprende e lo rispetta.

Sta per diventare mamma. Pensa di riuscire a conciliare la sua professione e la sua nuova dimensione familiare senza sacrificare l'una o l'altra?

Certamente, per chi fa un lavoro come il mio, la gestione di un bambino richiede organizzazione. Non solo i turni di lavoro sono lunghi, ma sono anche impegnativi. Ci sono le notti, le reperibilità, le urgenze che ti fanno tornare a casa due ore dopo, i corsi di aggiornamento, lo studio a casa. Bisogna avere buona volontà, capacità organizzativa, ed avere accanto una persona che rispetti quello che stai facendo e lo comprenda. Io sono fortunata perché ho accanto una persona che fa un lavoro molto simile al mio. Il mio compagno è un infermiere, lavora in sala operatoria, anche lui lavora su turni, ha le reperibilità. Quindi non è difficile fargli comprendere quelle che sono le dinamiche di un lavoro in ospedale. Probabilmente non sarebbe stata la stessa cosa se lui avesse fatto un altro tipo di lavoro, con tempi più definiti.  Per lui non è un peso se io lavoro la domenica così come per me non è un peso se lui viene chiamato a mezzanotte per un intervento.

Nel rapporto con il proprio compagno di vita, con la famiglia, con gli amici, con gli adulti in generale, è possibile trovare comprensione e rispetto per il tempo e per le energie che vengono dedicate alla propria vita professionale. Questo non è sempre possibile con i propri figli, soprattutto quando sono molto piccoli. Cosa ne pensa?

Da quando aspetto il mio bambino ci ho pensato spesso. Con gli adulti è più facile perché, se non comprendono il motivo per cui tu dedichi tanto tempo al tuo lavoro, ci si può salutare. Così feci ai tempi del mio primo impiego in clinica privata, col mio fidanzato di allora che andava dicendo agli amici che ormai era vedovo perché io ero sempre al lavoro. Con i tuoi figli questo non si può certamente fare.
Io e il mio compagno saremo soli ad occuparci del nostro bambino, la mia famiglia è lontana e i suoi genitori sono giovani, lavorano ancora. Probabilmente succederà che io mi perderò alcune delle sue prime conquiste, magari non sarò lì quando inizierà a camminare. Probabilmente, quando sarà più grande, mi perderò qualche sua partita o qualche festicciola, e mi sentirò dire che le altre mamme ci sono sempre e io mai.
Spero di far capire a mio figlio che il lavoro che faccio mi piace, mi gratifica, mi fa stare bene anche al di fuori dell’ospedale. Credo che i bambini siano capaci di comprendere oltre le parole. Se mi vedrà serena, se quando sarò insieme a lui mi vedrà felice, penso che capirà senza bisogno di troppe spiegazioni. Quando ci sarò, sarò con lui, sarò una donna contenta, felice, soddisfatta e non una mamma che è lì con lui, ma che in realtà vorrebbe essere da tutt'altra parte.
Non mancheranno i momenti duri e i sensi di colpa, ma ho fiducia nella passione per il mio lavoro, saprà sempre aiutarmi a non perdere la bussola. Spero di riuscire a conciliare la mia vita professionale e la mia vita privata, anche con un bambino. Spero di non colpevolizzarmi troppo. Nessuna donna si dovrebbe colpevolizzare perché fa un lavoro che le piace, anche se quel lavoro la tiene lontana da casa, magari la fa tornare tardi quando i bambini sono già a letto. Nessuno si scandalizza se questo lo fa un uomo, se il papà per lavoro rimane molto fuori casa. Credo che i tempi siano maturi perché nessuno si scandalizzi se questo avviene ed è una donna a star fuori casa per lavorare.

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La Dr.ssa Vannicola in attesa del suo bambino
 

Ha mai pensato, una volta mamma, di chiedere una riduzione di orario, un cambio di mansione, di rivedere la sua vita professionale e di ripensare al suo futuro professionale?

Assolutamente no.

Dal punto di vista pratico, come vi organizzerete per occuparvi del vostro bambino dopo la fine del congedo per maternità?

Per stare il più possibile con lui quando nascerà, anche grazie al sostegno del mio primario, ho lavorato fino alla fine della gravidanza. In più, nell’ultimo anno sono stata a casa in ferie pochissimi giorni, quindi potrò usare le ferie accumulate per occuparmi di lui.
Terminato questo periodo, chiaramente avremo una persona che ci aiuterà, una tata, una baby-sitter, una figura che possa arrivare a casa alle 7 del mattino, preparare il bambino, portarlo all’asilo nido, poi andarlo a riprendere al pomeriggio e stare a casa con lui finché non saremo a casa. Tutto cambierà in base ai turni miei e del mio compagno,, i giorni saranno sempre diversi. Quindi potranno esserci giorni in cui lo potrò accompagnare al nido, così come ci potranno essere delle domeniche in cui il bambino starà col papà o con i nonni.
Ho la fortuna di avere un primario molto comprensivo, che nella pianificazione dei turni mostra attenzione per le esigenze di chi ha bambini piccoli. Un’ottimale organizzazione del lavoro e dei turni può fare la differenza tra una pessima qualità della vita familiare e una qualità della vita familiare buona. Colleghe in altre realtà non sono così serene, purtroppo. Mamme e papà non sempre devono lavorare meno, a volte serve solo che lavorino meglio, soprattutto meglio organizzati.

Quanto pensa che potrebbe migliorare la sua vita e quella del suo compagno se il suo ospedale avesse un asilo nido interno, magari anche una scuola materna, una ludoteca per i bambini più grandi?

Ovviamente sarebbe la soluzione di tanti problemi, per me e per tutti i lavoratori dell’ospedale. Il mio ospedale, di medie dimensioni, ospita una popolazione numerosa di lavoratori: medici, infermieri, tecnici, impiegati amministrativi, e via dicendo. Un piccolo paese, insomma.
Una struttura interna, studiata sulle esigenze di chi lavora in ospedale, sarebbe la vera soluzione. Per me sarebbe possibile accompagnare il mio bambino in asilo, andarlo a prendere. Magari potrebbe andare anche il sabato e la domenica, se io sono di turno, stare a casa con me il venerdì se io sono a casa. Una vera rivoluzione che permetterebbe di conciliare davvero i tempi lavorativi con quelli familiari, che renderebbe i genitori più sereni. E questa serenità si riverserebbe sulla qualità del loro lavoro in ospedale. I soldi spesi per una struttura del genere sarebbero un investimento.
Purtroppo oggi questo è fantascienza. Tutti parlano, ma poi nessuno realizza soluzioni concrete per le famiglie. Mancano aiuti economici concreti, ma soprattutto manca la sincronizzazione tra il mondo reale e le esigenze delle famiglie.

Il tema della conciliazione tra vita professionale e vita privata quanto è presente, secondo lei, tra gli uomini, in particolare tra i suoi colleghi medici?

Il mio compagno è assolutamente sul pezzo, come si suol dire. Lui sta riflettendo sulle stesse questioni su cui sto riflettendo io. Come lui, credo che così facciano molti altri uomini.
Tuttavia, credo esista ancora un buon numero di uomini che, di fronte a queste domande, non saprebbe rispondere. Semplicemente perché non sono questioni che si pongono, credono non siano di loro pertinenza. Quanti uomini, prima di avere un bambino, si chiedono se riusciranno a trovare il giusto equilibrio tra famiglia e lavoro? Quanti pensano ad una riduzione di orario, ad un cambio di mansione, a prendersi un periodo di aspettativa per poter stare a casa col proprio figlio?
In Italia la cultura dominante è ancora quella che vede una netta separazione di ruoli tra uomini e donne, secondo me assolutamente anacronistica.  Ad una domanda qualsiasi su questo tema, molti risponderebbero: “Guarda, in qualche modo la mamma si organizzerà”.
Per molti miei colleghi uomini, seppur papà, non esiste alcuna richiesta specifica relativa ai turni. Le madri presentano richieste e mostrano necessità, i padri no. Come si spiega?

Secondo i dati della FNOMCEO dell'inizio 2021 i medici uomo rappresentano il 55% del totale in Italia. Considerando la fascia d'età <65 anni rappresentano però il 54%. Questa percentuale sale al diminuire della fascia d'età. Questi numeri, nella sua esperienza, si riflettono nella realtà per quel che riguarda le posizioni di leadership?

La mia esperienza di carriera è relativamente breve, dal mio primo tirocinio da studentessa ad oggi sono passati poco più di dieci anni. Tuttavia, in ambito ospedaliero, ho notato un piccolo incremento del numero di donne in posizioni dirigenziali. Ho notato anche che le donne in posizioni di leadership sono tutte donne molto preparate, molto carismatiche, molto capaci, senza alcun dubbio. Dubbio che, invece, non lo nascondo, qualche volta mi è venuto pensando ad alcuni dirigenti di reparto uomini. “Come diamine ha fatto ad arrivare qui?” è una domanda che mi sono posta per gli uomini, mai per le donne. Sembra che le donne, per arrivare in posizioni dirigenziali, debbano sempre dimostrare di essere assolutamente brave, che non possano permettersi di avere anche solo una competenza non eccellente. Le donne in medicina stanno emergendo, ma ci riescono solo se vanno a doppia velocità rispetto agli uomini.

Parlando di integrazione di genere: a che punto siamo, secondo la sua esperienza, soprattutto nel suo ambito professionale?

Confermo quello che ho detto prima. Se sei donna, per essere considerata devi faticare il doppio. Agli uomini basta meno per essere tenuti in considerazione, per essere scelti, per essere premiati. Le donne devono dare il massimo. Come se la donna fosse sotto una lente di ingrandimento molto più potente rispetto a quella sotto cui si trova l’uomo. C’è ancora un forte pregiudizio, anche tra i colleghi, uno schema mentale secondo cui il camice stia bene solo all’uomo.
A me è capitato più volte, durante le consegne o al giro visite, di proporre una diagnosi o una terapia e vedere smorfie stranite sui volti dei colleghi maschi. Se poi, il giorno dopo, un collega maschio di pari esperienza proponeva la medesima cosa, questa veniva accettata di buon grado. Serve un cambio di mentalità.
Un altro esempio? Più volte, da specializzanda, mi trovavo ad imparare le procedure con colleghi maschi, più anziani. E frequentemente, se facevo bene, il collega mi guardava stupito e diceva: “Però, brava, per essere donna te la sei cavata bene”. Frase mai sentita quando lo specializzando che doveva imparare era un uomo.
Dobbiamo tenere duro. Noi donne non dobbiamo farci intimorire da questi atteggiamenti, non dobbiamo farci appiattire da questo modo di pensare.

Se la tendenza verrà confermata, per un fattore semplicemente numerico, in futuro avremo sicuramente più donne medico primario, più donne medico a capo di gruppi di ricerca, di società scientifiche, in tutte le posizioni di leadership. Questo comporterà i cambiamenti che oggi le donne auspicano?

Non sono sicura che avere molte donne in posizione di leadership porterà automaticamente un cambiamento nella gestione degli organizzazione del lavoro. Credo che per fare questo ci vorrà un cambiamento di mentalità, anche nelle donne e per questo ci vorrà tempo. Temo che le donne, per molto tempo ancora, penseranno di dover lavorare il doppio al fine di dimostrare di essere in gamba, di meritarsi quel posto. Questo chiaramente determinerà un gran dispendio di ore per lavorare, per studiare, sacrificando ancora tempo ed energie alla vita familiare.
Mi auguro che questo possa succedere, ma non credo che potrà avvenire in tempi rapidi.

Cambiamo discorso, parliamo di medici sui social media. Lei ha un profilo Twitter molto seguito. Come lo usa?

Ho iniziato ad usare Twitter tanti anni fa, ero ancora all'università. Lo utilizzavo molto, esprimevo pensieri su tutto, anche sulla medicina, senza pormi particolari limiti. Quando mi sono laureata e poi abilitata alla professione, ho sentito che avrei dovuto comportarmi in modo differente. Chi avrebbe letto i miei tweet, avrebbe letto i tweet di un medico, non più i tweet di Sara. Iniziai a sentirmi responsabile di quel che scrivevo. Il problema è che, sui social, qualunque cosa tu scriva, troverà sempre il parere contrario di qualcuno e qualcuno che lo appoggerà. E non importa quanto tu abbia studiato e sappia di quell’argomento, arriverà sempre qualcuno laureato all’università della vita a darti addosso. Dopo alcune conversazioni avute a proposito del presunto legame tra vaccinazioni ed autismo, sono stata presa dallo sconforto, mi sembrava davvero di perdere del gran tempo. Nell’ultimo anno, con le polemiche sul vaccino anti-COVID, ho proprio perso ogni speranza.
Pensavo che Twitter potesse essere un buon luogo per fare, non dico divulgazione scientifica, ma almeno un minimo di corretta informazione. Ora mi è completamente passata la voglia. Parlare di medicina sui social, da medico, ti sottopone ad una serie di critiche, commenti non necessari, giudizi da parte di persone che non ti conoscono, che non sanno assolutamente nulla di te, del tuo lavoro, dell'impegno che hai messo per raggiungere la posizione che hai.
Oggi non utilizzo più Twitter come lo utilizzavo qualche tempo fa. Un cinguettio ogni tanto, nulla di più. Nei prossimi mesi lo userò ancora meno, avrò altro da fare, mi occuperò del mio bambino.

Le mancherà il suo lavoro durante la maternità?

Mi mancherà il mio lavoro, ma sarò felicissima di veder crescere il mio bambino nei suoi primi mesi di vita. Allo stesso tempo, quando tornerò al lavoro, mi mancherà il mio bambino, ma sarò felicissima di trascorrere le mie giornate facendo il lavoro che mi piace tanto fare.
 

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